EPONA

di Cattia Salto

Epona (la giumenta divina) dea celtica dei cavalli e della fertilità, divenne popolare tra i soldati della cavalleria romana di stanza in Gallia e, unica divinità celtica, accolta nel pantheon romano (tra il I sec e il III sec d.C.).
Raffigurata come una donna a cavallo alla maniera delle Amazzoni, accompagnata da un puledro o da un cane, o seduta con due puledri che si nutrono dalla patera appoggiata sulle ginocchia o con una cornucopia o un mazzo di chiavi in mano, è chiaramente una Grande Madre dea della fertilità.
L'areale in cui sono state rinvenute sue statuette votive, bassorilievi (soprattutti tombali) e statuette greco-romane di varie dimensioni,  spazia con baricentro la Gallia dalla Spagna alla Germania e fino alla Bulgaria, ma anche in Gran Bretagna.

Si suppone che dalle province danubiane quale divinità tribale (gli Edui) il suo culto si diffuse in Gallia e nel Nord d'Italia per passare attraverso il culto romano in tutto il Mediterraneo. La sua protezione veniva in particolare invocata nelle stalle come ci narra Apuleio nella sua opera “Asinus aureus” (L’asino d’oro) in cui descrive un piccolo saccello dedicato ad Epona inghirlandato da rose appena colte (la varietà selvatica della rosa gallica). Nell'opera Epona è assimilata ad Iside e questo potrebbe far supporre un culto misterico associato alla dea di cui però non si è conservata traccia. Di certo la dea non è una dea della guerra bensì dea ctonia accompagnatrice di anime, una dea che custodiva i suoi devoti durante questa vita e nel mondo seguente.
In un dipinto parietale a Pompei (di cui rimane solo una riproduzione in disegno) mostra,le due dee  (Iside è riconoscibile per il sistrum e il copricapo). Probabilmente entrambe tengono in mano una cornucopia.

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Custode delle chiavi della vita e della morte

La Dea è simbolo di abbondanza e di fertilità, propizia alla vita e alla guarigione ed è connessa al potere curativo delle acque termali ma anche portatrice di fortuna.
Nella mitologia celtica, il cavallo era associato all'Altrove, accompagnatore delle anime dei morti nell’oltretomba, la terra delle fate, personificazione della Grande Madre.
Per i Celti era un animale sacro, simbolo della regalità e attributo di varie divinità in particolare delle dee-giumente. Simbolo di ricchezza (portafortuna) e seppellito insieme al suo padrone (o degno di una sepoltura rituale se caduto in battaglia) era allevato se di manto bianco dai druidi e utilizzato per i vaticini  e i riti propiziatori (animale sacrificale).
Animale totemico per molte tribù celtiche che ne riprendono il nome, la sua carne era tabù tranne che in particolari momenti rituali. continua

Inevitabile l'accostamento di Epona con Rhiannon dea gallese che sposa il Signore degli Inferi e con Macha moglie di re Conchobar

RHIANNON

Da Il tempo dei celti. Miti e riti: una guida alla spiritualità celtica di Alexei Kondratiev

Rhiannon (“Grande Regina”) appare per la prima volta al marito, il nobile Pwyll, cavalcando nello stile tipico di Epona. Ella stessa viene degradata ad un ruolo equino quando il figlio appena nato, Pryderi, viene rapito dai poteri dell’Altromondo, ed è quindi accusata di averlo ucciso. La sua condanna consiste nello stare davanti all’entrata del suo castello e di offrire agli ospiti di portarli in groppa all’interno di esso, dopo aver raccontato in che modo ha ucciso il proprio figlio. Nel Terzo Ramo, quando sia lei che Pryderi (ora adulto) sono prigionieri della fortezza dell’Altromondo di Llwyd ap Cil Coed, sono costretti a indossare gioghi da cavallo intorno al collo. È implicito in entrambi gli episodi che la Dea e suo figlio (il neonato Pridery viene riportato indietro da Teyrnon in compagnia di un puledro magicamente rapito) vengono realmente trasformati in cavalli; e questo è un fatto confermato dalle varianti della tradizione orale, specialmente in Bretagna. La ragione precisa di questa involuzione allo stato animale non viene mai chiarita (eccetto finora nella struttura generale della narrazione, secondo cui riflette la vendetta di Gwawl su Rhiannon e sulla sua famiglia, usando Lwyd ap Cil Coed come agente), ma se, come suggerito da Caitlìn Matthews, Rhiannon e Pryderi rappresentano qui Modron e Mabon (Matrona e Maponos), la Grande Madre e il grande Figlio, la trasformazione potrebbe essere spiegata con la sua funzione nel più ampio contesto mitologico e rituale. La nascita del Figlio della Luce (che diverrà Maponos, il giovane e vigoroso dominatore della metà samos dell’anno) avviene quando l’aspetto materno e umanamente attraente della Dea Terra è addormentato, sostituito dalla Scrofa, la Megera, la Dea nel suo aspetto ostile (forse rappresentata nel Primo Ramo dalle serve che architettano l’umiliazione di Rhiannon). È l’ascesa della Megera a produrre in effetti l’eclissi della Madre, espressa dalla perdita delle facoltà umane quando il personaggio assume caratteri animali (natura animale = giamos; natura umana = samos). Il volto umano e orientato verso la Tribù della Dea tornerà soltanto quando l’anno si avvicinerà alla sua metà luminosa. Llwyd (la “Grigia”) è la figura che possiede la chiave dei cambiamenti. 

Considerando nuovamente il nostro rituale del Solstizio [hoodening] alla luce di quanto sopra, ci si rende conto che, nella stagione invernale, Mari Lwyd è una madre che è stata separata dal figlio. Questo porta immediatamente alla mente molte figure di altre mitologie, Dee-Madri che vagano in lacrime su una terra deserta in cerca di un amore perduto (figlio o consorte) collegato al potere della fertilità: Demetra e Persefone, Iside e Osiride, Nanna e Balder, Leminkäinen e sua madre… Nel caso di Demetra e Iside, le dee vaganti acquisiscono un seguito di compagni che assumono essi stessi significato individuale nei miti. Forse che il racconto di Rhiannon, o dell’archetipo da lei rappresentato nel sapere celtico, contenesse un tempo proprio questo elemento, sopravvissuto fino ad oggi nel rituale che ha ispirato? È il proprio il puledro che la Giumenta Grigia o la Grande Giumenta cerca una casa dopo l’altra, e gli strani personaggi che l’accompagnano, suonando campanelle e violini e sventolando nastri, sono gli aiutanti dell’Altromondo che la sostengono nel suo esilio; le loro identità ci sono sconosciute in questo contesto specifico, ma senza dubbio sono molto vicine a quei “compagni magici”  così comuni nella tradizione popolare. Ovviamente, nonostante la possibilità di tali associazioni, la cerimonia funge ancora chiaramente da rituale “cavallino” mirato a ripristinare la fertilità o riattivare i poteri della generazione: anche in esilio, incapace di manifestarsi apertamente nella natura, la Dea-Terra può ancora trasmettere la sua “energia equina” (eoghus) a coloro che ne hanno bisogno, e lo fa con la tipica turbolenza di un “cavallino”.
 

Epona la strega

In epoca altomedievale, Epona fu anche assimilata a Hera, divinità celtica a cui sono state rinvenute iscrizioni in Svizzera e in Gallia Cisalpina. In Hera, Era o Haerecura "l'antico nucleo funerario che è stato individuato nell'omonima Hera greca riaffiorava in maniera duratura. Ancora al principio del '400 i contadini del Palatinato credevano che una divinità di nome Hera, portatrice di abbondanza, vagasse volando durante i dodici giorni tra Natale e Epifania" (G. Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Torino 1989. pag. 81). Hera, legata a Diana, da cui Herodiana (in seguito trasformata in Erodiade) era la dea notturna per eccellenza che soprintendeva al noto "Corteo di Diana" in cui le donne perverse votate a Satana cavalcavano "certe bestie" al seguito della dea dei pagani. E così il cerchio si chiude: la "Diana paganorum dea" immaginata e poi raffigurata sempre a cavallo di animali lanciati al galoppo espressione più concreta della demonizzazione cristiana del culto precedente, deve essere intesa come "un'interpretatio romana di Epona, o di qualche sua equivalente locale (...). Ora, le più antiche testimonianze sulla cavalcata di Diana provengono da Prum, da Worms, da Treviri, ossia da una zona in cui è stata rinvenuta una gran quantità di raffigurazioni di Epona, a cavallo o accanto a uno o più cavalli " (G. Ginzburg, Op. Cit., pag. 82).