Privacy Policy Le lingue popolari delle Terre Celtiche: il piemontese

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IL PIEMONTESE

sermone-sub.jpgIl Piemontese è riconosciuto fra le lingue minoritarie europee fin dal 1981, anche l’UNESCO lo annovera tra le lingue meritevoli di tutela. È una lingua neolatina appartenente al sistema dei dialetti gallo-italici.

 

I primi manoscritti in tale lingua possono essere considerati I Sermoni Subalpini (codice: Biblioteca Nazionale, Torino, D. VI. 10. 128r-188v) con una datazione, riferibile al primo di essi, intorno all’anno Mille. continua

 

Molte sono le associazioni che si dedicano allo studio della lingua piemontese e alla sua tutela, eccone alcune

 

Vercelliviva - Vercelli

Al Sol ed j'AlpBorriana (Bi)

Nòste Rèis – Torino

LA LINGUA PIEMONTESE ED I SUOI DIALETTI

A cura di Vercelliviva

Dai Sermoni subalpini fino alla grammatica di Maurizio Pipino (uscita dai torchi delle stamperie reali nel 1783) e al dizionario dello stesso autore (sempre 1783), in quattro lingue (piemontese, francese, latino, italiano), la lingua piemontese è attestata in numerosi documenti, parte dei quali già nota prima della ventennale serie dei Convegni internazionali di studi sulla lingua e sulla letteratura piemontese, diretti dal compianto Gianrenzo P. Clivio, parte invece pubblicata – in ineccepibili edizioni filologiche – sia negli atti di detti convegni, sia in pubblicazioni a parte.

 

Esiste una lingua piemontese, così come identificabile ed esemplificabile tramite la copiosissima produzione letteraria e giornalistica, e come oralmente avallabile dalla prassi dei Rëscontr antërnassionaj ëd lenga e ’d literatura piemontèisa, nel corso dei quali il piemontese è stato utilizzato come lingua organizzativa, espositiva e scientifica.

 

La lingua piemontese fu inoltre utilizzata da Corte, Conti e Contado per diversi secoli come unica lingua per tutte le esigenze espressive, dal commercio alla guerra, dall’ingegneria all’agricoltura, dal teatro alla liturgia. Come lingua nazionale e popolare il piemontese ha almeno quattro volte gli anni della lingua italiana.

 

È solo il caso qui di menzionare la lodevolissima iniziativa di alcuni ingegnosi e competenti piemontesisti che hanno costruito il sito Wikipedia an piemontèis, con l’uso del piemontese come lingua di comunicazione e di informazione e il caso della splendida rivista É, che ha esemplificato con rara perizia linguistica l’uso del piemontese per la saggistica sui più svariati argomenti. Riferimento è pure fatto alla rivista La Slòira, che continua con identico fervore e competenza la gloriosa tradizione di Musicalbrandé e la più che quarantennale rivista Piemontèis Ancheuj, tutti esempi di utilizzo di una koiné elegante, lessicalmente ricca, scientificamente precisa e semanticamente adibile a tutta l’area piemontofona.

 

Ci si può dunque riferire a questa lingua ricca, duttile, popolare e letteraria come alla “lingua piemontese”, e al comprensorio in cui essa è utilizzata come all’ “area piemontofona”. I locutori periferici riconoscono e capiscono la lingua della capitale, i locutori della koiné comprendono e sono compresi dai locutori del contado e della provincia. Gli edotti la utilizzano come lingua scientifica, giornalistica e letteraria, i 2.700.000 locutori come colorita serie di varianti locali, ma ben contenute entro isoglosse di univoca interpretazione.

 

Per alcuni decenni – forse per l’urgenza di ripristinare il piemontese al rango di lingua letteraria credibile e dignitosa – si ritenne che l’unica possibilità di lingua creativa e letteraria potesse essere costituita dalla variante torinese. Ai primi convegni di lingua e letteratura piemontese, all’inizio degli anni Ottanta, ci si accordò in modo che, nel parlare, ciascuno eloquiva secondo il proprio accento e la propria variante, nello scrivere ci si conformava alla koiné.

 

Oggi ci si è aperti alla ricchezza lessicale, idiomatica e anche morfologica delle varianti locali, i cosiddetti “dialetti” della lingua piemontese, e codeste varianti vengono considerate non come deformazioni/deviazioni linguistiche da evitare (sarebbe storicamente e filologicamente del tutto inesatto), ma come preziosi elementi con cui arricchire la comune lingua piemontese. La lezione di profondi conoscitori della lingua piemontese, come il poeta Luigi Olivero e la poetessa Bianca Dorato – raffinati fruitori delle varianti locali – ha prodotto i suoi frutti e due principi ne sono emersi:

è indispensabile consentire a ciascuna comunità di conservare la propria variante di piemontese, incoraggiandola a redigere dizionari e glossari, e di elaborare i grafemi atti a rappresentare i fonemi unici di quella parlata;

è lecito appropriarsi di parole, forme morfosintattiche, desinenze verbali, tipiche di una contrada per arricchire la lingua letteraria.

 

La sistemazione filologica e storica di altre grafie

Assai più arduo sistemare filologicamente o storicamente le varie grafie italianizzate manifestatesi negli ultimi decenni ad opera di vari operatori, in varie sedi, al fine di rendere più agevole la compitazione e la lettura della lingua piemontese.

Più arduo perché gli sviluppi fonetici del piemontese nel corso dei secoli e i corrispondenti grafemi vengono disattesi con l’impiego di grafemi italiani o, addirittura, teutonici (o, comunque, in uso presso le grafie di varie lingue germaniche). I nessi grafico-fonetici con le consorelle lingue provenzale, franco-provenzale e francese vengono obliterati. Inoltre l’adozione di grafemi italiani estranea i discenti dall’abbondantissima produzione letteraria redatta in grafia storica.

GRAFIA

È possibile dunque seguire nei dettagli l’evoluzione della grafia tanto per la koiné della capitale e della corte, quanto per quella delle varie realtà linguistiche dell’area piemontofona.

 

Coeve, o immediatamente successive alla grammatica e al dizionario del Pipino, sono le magistrali opere letterarie di Ignazio Isler e di Edoardo Ignazio Calvo, che ribadiscono la compitazione e gli exempla del Pipino. Tanto a Torino, quanto nelle valli occidentali (Pellice, Germanasca, ecc.) fortissimo è l’influsso del francese tra fine Settecento e inizio Ottocento, epoca durante la quale il Piemonte è inglobato nel territorio nazionale francese. Alcune pubblicazioni di carattere religioso (soprattutto delle chiese riformate) riflettono l’influsso del francese sulla grafia del piemontese, in particolare la traduzione dei Vangeli ad opera della Chiesa Valdese.

 

Nel corso dell’Ottocento, con Angelo Brofferio e Norberto Rosa, si hanno lievi modifiche grafiche, che si accentuano a fine secolo con Alberto Viriglio e altri autori in versi, in prosa e di testi teatrali, in parte per la pressione esercitata dall’italiano, assurto nel frattempo al rango di lingua nazionale.

 

Nel Novecento il caso limite è quello del grande poeta Nino Costa, vera vox populi, che riscrive la propria opera, redatta in un primo tempo in una grafia tardo-ottocentesca, conformandola alle neorestaurate norme grafiche.

 

L’opera ripristinatrice de Ij Brandé e, in particolare, della coppia Pacòt-Viglongo (rispettivamente il più grande lirico/teorico e il più importante editore di testi in lingua piemontese) non rivoluziona la grafia, ma ribadisce i principi già in auge ai tempi di Pipino, razionalizzandone i casi ancora dubbi. È, in sostanza, la consacrazione definitiva della grafia sei e settecentesca. La prassi editoriale nel Novecento da parte di editori come Viglongo, il Centro Studi Piemontesi, Piemonte in Bancarella, Il Punto, Gioventura Piemontèisa, Piazza, Dell’Orso, Priuli-Verlucca, ecc., come pure la copiosissima produzione letteraria, lessicografica e giornalistica, risultano essere di stretta osservanza della grafia Pacòt-Viglongo.

 

Tuttavia anche quest’ultima sistemazione grafica di Pinin Pacòt e di Andrea Viglongo lascia adito ad alcuni dubbi, in buona parte risolti poi nella prassi della fiorentissima produzione letteraria, giornalistica e critica degli anni del dopoguerra.

 

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