Raccasi non ci stupisce
più per la sua abilità, (ormai indiscussa e
conquistata sul campo con la pubblicazione di ben 4 libri) di calarsi
in un tempo storico così lontano e frammentariamente
documentato (il 1600 a.c.) e di restituircelo con tutta la vividezza e
il realismo possibile!
La terra dove prende vita il
racconto è la penisola scandinava
dell’età del Bronzo abitata da un popolo simile a
quello celta, seppur nettamente diverso, e che ha parimenti espresso
una mitologia complessa, giunta intatta fino al medioevo.
Quest’ultimo romanzo
non concede quasi nulla al fantasy e a quell’alone di magia
che aveva permeato le precedenti vicende, qui il mistero si incentra
tutto nel viaggio, un viaggio verso terre ignote, seguendo un fertile
topos della letteratura celtica, l’Imram.
Imram è una parola
celtica che significa viaggio, un viaggio per mare ma soprattutto un
viaggio nel sé e toccherà a Conan, viaggiare
nelle terre dei Lochlann (i guerrieri dei fiordi) tra coloro che da
sempre avevano ridotto in schiavitù la gente del suo popolo
per poi intraprendere quello ben più insidioso, nella
nebbia, nel buio delle terre ancora più a Nord, nel cuore
dell’Inverno. In un paesaggio che si ammanta di tutti gli
incubi più temuti dai marinai del Nord (mostri veri e
presunti- iceberg e balene, il kranken e il maelstom) e di eventi
fantastici come l’aurora boreale, un pugno di uomini lotta
per la vita contro un sole di ghiaccio, in un deserto bianco.
L’azione segue
dappresso il protagonista, Conan ormai uomo maturo dai capelli
diventati grigi, per amore dell’avventura e della sfida,
grazie alla sua tempra e a una serie fortuita di coincidenze (o di
intrecci del destino), riesce a trovare la nave fantasma e il suo
prezioso bottino, e a incamminarsi verso la via del ritorno.
Tradimenti e falsità
umane sono il corollario di un crudele mondo di ghiaccio, di freddo e
di dolore ma Conan dopo essere stato tra la vita e la morte…
riesce a ritornare, seguendo il richiamo di quelle stesse forze che
fanno si che dopo il freddo e il ghiaccio dell’Inverno
ritorni la Primavera! La descrizione della bella stagione che saluta il
ritorno dell’eroe, (che non è altro che un uomo)
un tripudio di verde e di vita, scende come balsamo
nell’animo del lettore.
(Cattia
Salto)
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Nota storica
dell’autore
In un passaggio a pag. 4 del libro di
Caitlin Matthews “The Celtic Tradition” (Element
Books Ltd. – 1989) tradotto in italiano con il titolo
“I Celti, una antica tradizione europea” (Xenia
Edizioni, Milano – 1993) indagando tra le origini mitiche
delle invasioni d’Irlanda, l’autrice specifica come
il termine irlandese riferito ai popoli scandinavi fosse Lochlann.
Donnchadh Ó Corráin del Dipartimento di Storia
dell’Università irlandese di Cork cita in un suo
saggio “The Vikings in Scotland and Ireland” come
svariati fossero gli appellativi riservati alle genti del nord che
regolarmente invasero l’isola di smeraldo nel corso dei
millenni: Lothlend, Laithlind, Laithlinn, Lochlannach, Lochlainn. Di
questi la parola Lochlann risulta largamente la più usata.
Il termine risale molto addietro nel tempo, a quel periodo che data
l’insediamento delle prime popolazioni nelle isole
britanniche, a quell’epoca remota cui fanno riferimento i
cicli mitologici delle invasioni d’Irlanda. Si trattava di
popolazioni giunte da sud, i precursori dei Celti. Le stesse che
costruirono il mito degli dèi primordiali Túatha
Dé Dánann e delle loro lotte coi Fomorians e Fir
Bòlg.
Sia pur frutto di fantasia nel dar vita ad azioni e situazioni, questo
libro poggia su basi storiche e i suoi personaggi sono appartenuti alla
storia o alla mitologia della tarda Età del Bronzo. Pertanto
è giusto rapportarsi a loro con l’appellativo di
Lochlann e non certo di Vichinghi.
Dunque bisogna un po’ intendersi. Utilizzando
l’arcaico termine Lochlann, queste popolazioni vengono
collocati nel corretto periodo storico. Si tratta degli stranieri
Gennti, i predoni che scendevano dal nord per saccheggiare prima,
colonizzare e mercanteggiare per arricchirsi poi. Erano
un’etnìa con solo un abbozzo di regole sociali,
che festeggiavano solo tre periodi di ricorrenze in un anno (Jol /
Yule, Sigr Blot / Litha, Vetr Naetr), senza quella coesione che fa di
un’accozzaglia di tribù di cacciatori o
agricoltori una nazione. Erano pertanto dei proto-vichinghi, accezione
che comparirà ben dopo l’Età del
Bronzo, epoca invece cui si riferisce questa narrazione.
Il primo uomo di cui vi siano prove d’esistenza nella
penisola scandinava fece capolino dalla profonda preistoria nella
regione di Østfold, non lontano dall’attuale
confine tra Norvegia e Svezia. La datazione col radiocarbonio lo fa
risalire a 10.000 anni fa, quando la distesa di ghiacci
iniziò a ritirarsi da quelle terre. Il punto della
terraferma in cui sono state rinvenute tracce
dell’accampamento era allora con ogni probabilità
un’isola oltre la linea della costa. Nel 1.600 a.C., epoca
che ci interessa ai fini della nostra ambientazione, i reperti mostrano
un’organizzazione agricola al sud e più
marcatamente di cacciatori al nord. Del resto non vi sono tracce
scritte in quanto, al pari dei Celti, i Lochlann non facevano uso della
scrittura, almeno sino al X sec., quando erano ormai influenzati della
colonizzazione cristiana.
Anche dei termini utilizzati si ha maggiore conoscenza se riferiti ad
epoche posteriori al 1.600 a.C. Non esistono documentazioni riferite a
quel periodo. Per cui si può solo
‘presupporre’ ed intuire la povertà del
linguaggio di allora. In alcuni casi, pertanto, l’uso di
certi termini può essere cronologicamente improprio, anche
se il condizionale è d’obbligo in quanto non si
può neppure negare il contrario: non è detto che
vocaboli riportati in epoche successive all’Età
del Bronzo non fossero utilizzate anche prima di allora con sfumature
di diversità. Anzi; con la conferma dello stesso ceppo
linguistico è ben probabile che siano proprio
‘derivate’ da espressioni antecedenti. In questo
contesto emerge un dato storico assodato: migrazioni di stirpi
indo-europee si stabilirono nella penisola scandinava attorno al 4.000
a.C. muovendo dall’Asia centrale. Successivamente
è proprio nella media Età del Bronzo che
popolazioni proto-germaniche causarono profondi mutamenti:
un’invasione che di pacifico aveva ben poco. Orde di genti
presumibilmente conosciute come ‘Popolo delle Asce’
provocò un violento scontro tra civiltà: gli
aggressori non avevano migrato per migliaia di chilometri senza nutrire
la ferma volontà di sterminare per dominare. Ne
seguì un lungo periodo di guerre, finché il
‘Popolo delle Asce’ ebbe la meglio e
colonizzò i territori dell’attuale Scandinavia.
Del sistema socio-culturale che vi avevano trovato ne distillarono usi
e costumi più vantaggiosi, ma in linea di massima imposero i
propri princìpi guerrieri. E da questi discesero i connotati
dell’etnìa Lochlann prima e Vichinga poi. Anche il
sistema linguistico cui ho attinto nella mia narrazione ha quindi come
origine lo stesso, omogeneo periodo.
Sebbene col termine Vichinghi si riaccenda un concetto ben radicato
nell’immaginario popolare per l’alone di mistero,
leggenda ed avventura che li circonda, i Vichinghi propriamente detti
ebbero un excursus storico relativamente breve e molto più
recente. Si va infatti dalla fine dell’VIII sec. con le prime
scorrerie nel sud dell’Inghilterra, al 1.066 d.C. anno della
loro sconfitta ad opera di Guglielmo il Conquistatore. Pertanto ben a
posteriori rispetto al periodo cui sono riferite le vicende qui
narrate. Esattamente come per i Celti isolani, mi sono limitato a dare
vita a personaggi della mitologia Lochlann in un contesto storico ben
radicato negli animi scandinavi (anche contemporanei). E ho affrontato
un argomento intrigante: lo scontro di culture che si sarebbe avuto tra
queste due etnìe nel caso (e ce ne sono stati migliaia) di
un confronto tra usi, costumi e tradizioni di due popoli affini, ma pur
tuttavia diversi.
A questo proposito di norma i Lochlann erano gli invasori. E i Celti
insulari gli schiavi deportati per colonizzare terre come Islanda (860
d.C.) e Groenlandia (982 d.C.). E’ dunque naturale affermare
che i progenitori dei Vichinghi che affrontiamo in questo libro fossero
molto simili ai loro discendenti nell’indole avventurosa e
nell’abilità marinara.
Anche se è a questi pronipoti che vanno i meriti maggiori.
I Vichinghi raggiunsero le attuali coste francesi e
s’inoltrarono nelle terre dei Sassoni. Dopo aver conquistato
il Baltico, i Rus (etnìa svedese) mosse verso sud-est
discendendo il Volga e il Dnepr sino al mar Nero, poi al mar Caspio e
addirittura a Costantinopoli e Baghdad. Altra analogia: al pari dei
Celti, anche i Vichinghi non costituirono un impero reale. Mossi dal
bisogno di terre coltivabili, dalla necessità di vivere in
un clima migliore, dalla sovrappopolazione, furono soprattutto
un’etnìa di avventurieri del mare che portarono a
compimento viaggi ed esplorazioni straordinarie. Grazie ad imbarcazioni
insuperabili per quei tempi in termini di velocità,
resistenza e acquaticità, con poco pescaggio adatto anche
alla navigazione fluviale e la possibilità
d’essere brandeggiabili, ossia caricabili in spalla per
attraversare tratti di terreno. Nell’896 tale Bjarni
Herjolfsson sbarcò in nord America. Fatto ancor
più stupefacente fu che gli riuscì di tornare a
casa, organizzando altri viaggi che segnarono anni di spedizioni per
colonizzare l’attuale Terranova canadese. In soli due secoli
e mezzo i Vichinghi realizzarono gesta che hanno ancor oggi
dell’incredibile.
Non dissimili da quelle fiabe che sgorgavano dalle sorgenti iperboree
nell’antica cultura scandinava, che narravano degli uomini
delle rade, dei fieri navigatori padroni del mare quanto possono
esserlo dei corsari, e delle loro gesta umane eroiche in misura pari a
quelle degli dèi. Imprese che se fantasticate prima
sarebbero potute sembrare sogni.
E che invece divennero storia.
(Mauro Raccasi)
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